Favorire la convivenza interculturale e intergenerazionale nella scuola e nel territorio
“Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono” cantava Gaber.
Chi dice così sono molti ragazzi che abbiamo incontrato nei nostri anni di lavoro educativo e nella ricerca effettuata all’interno del progetto Pianeta Adolescenti.
Ecco cosa ci dicono:
“…io personalmente non mi sono mai sentita italiana anche se ho la cittadinanza italiana, sono nata qua, però gli altri non mi vedono come italiana, come una di loro e quindi perché dovrei sentirmi una di loro se non mi vedono in questo modo? Non vorrei mettere queste barriere ‘loro e noi’, però comunque rimane la differenza. Il primo approccio che hanno le persone con me, il modo in cui si relazionano con me: a volte cercano di non usare parole come ‘straniera’ per cercare di non offendermi, però c’è sempre questo filtro, non so come… è una cosa che sento…”
Sono cose che i ragazzi sentono… e che fanno male.
L’abbiamo chiamato “effetto elastico”: questi ragazzi si sentono rifiutati nel paese in cui nascono e vivono, accumulano senso di ingiustizia e rabbia, tornano a “rifugiarsi” e a cercare un senso di appartenenza all’interno della cultura dei propri genitori.
Sono cose che fanno male, ai ragazzi ma anche a tutta la comunità, che perde un’occasione importante di integrazione.
Il terzo incontro del percorso formativo del progetto Pianeta Adolescenti di oggi, giovedì 26 ottobre, si intitola “Favorire la convivenza interculturale e intergenerazionale nella scuola e nel territorio”.
L’obiettivo è dare degli strumenti a educatori, insegnanti, assistenti sociali: strumenti per riconoscere le difficoltà dei bambini e ragazzi di seconda generazione, per aiutarli a dare voce a queste difficoltà, e sostenerli nel difficile compito di crescere, formarsi un’identità e una cittadinanza in bilico tra culture e sistemi che faticano a dialogare tra di loro.
Gli adulti attorno a questi ragazzi hanno la possibilità e la responsabilità di svolgere la delicata funzione di mediazione. Al pari della “funzione terapeutica”, deve essere esercitata dall’esterno, per essere poi interiorizzata.
La funzione di mediazione è la capacità di riconoscere le differenze, tra le culture e i punti di vista delle persone, e legittimarle. Ovvero, con sensibilità interculturale (M. Sclavi), riuscire a pensare che “hanno tutti ragione”. Ognuno ha le sue ragioni, anche se diverse: i genitori a casa, gli insegnanti a scuola, gli altri educatori, i coetanei. Ognuno pone le proprie richieste ai ragazzi, ai quali spetta il delicato compito, una volta legittimati tutti, di comporre un proprio originale modo di assecondare queste richieste.
Se realizzano questo processo con successo, questi ragazzi sviluppano competenze relazionali molto più avanzate rispetto ai coetanei: capacità di mettersi nei panni degli altri e di mediare nei conflitti. Investire su di loro in termini educativi ha quindi una ricaduta positiva concreta per la comunità.